Messico e baci

Oggi ho provato a essere ordinata. Sorridevo tra me e me, quando elencavo le mie priorità della giornata non lavorativa. Ero in mutua: non riuscivo ad alzarmi dal letto e pensavo che fosse ancora martedì. Il soffitto era bianco e le palpebre pesanti, pensavo di non riuscire a mandare l’e-mail che mi avrebbe salvata dai sensi di colpa. Invece, restano lo stesso. Lo so già che dal lavoro ci si assenta solo per motivi gravissimi.

Due settimane fa è morto di cancro il compagno di una mia cara amica. Il loro bimbo ha 7 anni. Il calvario, per tutti loro, è cominciato ad agosto. I miei colleghi, al posto dei fiori o delle opere di bene, volevano fare dei regali a mamma e figlio.

Poi, è morto un mio amico. Lo conoscevo da 20 anni, era messicano. In vacanza studio a Bournemoth, nel 1999, a 16 anni, ci siamo baciati per 2 settimane. Pomiciavamo, nient’altro, perché io ero una stupida ragazzina ancora vergine e una vacanza studio era troppo poco per capire di provare altro al di fuori della paura di farsi prendere il cuore a picconate. Erano appena nate le e-mail e le usammo tanto, Mejico-Calabria ida y vuelta. Mi fece, dopo, scoprire ICQ. Poi MSN. Fu davvero bello. E poi di nuovo Facebook. E per 20 anni gli ho promesso di andare da lui e per 20 anni non ci sono andata e per 20 anni mi ha perdonata e voluta bene, finché una malattia mi ha mandata a fare in culo al posto suo.

Sono stata malissimo, senza sentirmene in diritto. Minimamente. Ho bloccato il dolore, fino a oggi, per strada. Ma, mentre piangevo col vento in faccia, un uomo mi ha chiesto: “Perché sei così bella e non sei sposata?”. E io ho risposto senza vederlo: “Dovrebbe essere una questione di amore, non solo di bellezza”. E poi i miei amici mi hanno chiesto perché non sono arrivata alla serata col mio “ragazzo” e io non ho detto niente, ma volevo dire che nel giorno in cui non mi riuscivo ad alzare dal letto, ero sola. Come nei giorni in cui ce la faccio.

Sorsi e addii

Gli ultimi anni passati a Roma li ho mescolati insieme alla nostalgia in un bicchiere di Mortlach 16. Riesco a sentire ancora l’odore di mare ingabbiato in una botte di sherry. Mi conforta e mi canta una canzone d’addio. Ogni sorso è un brindisi a chi non è più nella mia vita e, se c’è stato, c’era un motivo.

“In un mondo ideale – mi dico – certa gente non avrei avuto neanche la possibilità di incontrarla, non avremmo avuto niente da dirci”. Il mondo ideale non esiste, sarebbe pura noia e zero insegnamenti. Invece, adesso, quanti sorsi e brindisi e spero di non vederti mai più. Quanti ti voglio ancora tenere nella mia vita.

Roma mi manca, ma non ci vivrei più. Roma ha contribuito a farmi essere quella che sono, mi ha accompagnata nella trasformazione da vampiro a falena. Mi ha cullata e sculacciata. Mi ha lasciata entrare e lasciata andare.

Devo scrivere un articolo su Roma, un reportage personale, per la testata con cui collaboro qui a Berlino. Non riesco neanche a cominciarlo. Sento già il cuore infilzato da spilli, sento il sapore del mio sangue e subito dopo quello del whisky che fa passare tutto, il suo odore che mi stordisce con dolcezza, il mio respiro contaminato dal ricordo e dalla delusione.

Le avventure di…

Il primo libro che ho letto, a 7 anni, è stato Le avventure di Tom Sawyer. In questo titolo c’è tutto quello che sono andata a cercare nella vita: emozioni, imprevisti, libertà, coraggio. Qualche anno dopo, ho conosciuto L’amante e Cime Tempestose.

La vita e l’amore, nella mia immaginazione, partono da lì, da avventure e passioni struggenti, conquiste e sconfitte. E un sacco di montagne russe emotive. Ottimo, per l’immaginazione. Ma nella vita? Perché non riesco ad apprezzare quella sana noia che per me è stata sempre una spinta creativa? Anziché avvolgermi nel suo tepore, cambio le carte in tavola, per vedere che succede, dove mi fa balzare la reazione alla mia azione.

Oggi, mi ha fatta balzare di nuovo sul mio letto, in posizione fetale, a darmi dell’impaziente ottimista, a maledire Mark Twain, Marguerite Duras ed Emily Brontë, complici di messaggi che non dovevo mandare su WhatsApp.

Ripensandoci, però, forse devo ringraziarli. Quando una richiesta d’amore cade in un vuoto insonorizzato, la mia corazza risponde al posto del destinatario e mi dice: pensavi di avere molto altro tempo da perdere con l’ennesimo uomo che rifiuta le emozioni?

Grazie Mark, grazie Marguerite, grazie Emily.

Ma ti pare

Mi è sempre piaciuto avere amici di sesso maschile e mi è sempre venuto naturale averne. Ricordo con dolcezza le parole del mio compagno di banco alle media che mi disse “per me sei come una sorella”. Sto parlando di amicizia senza altri fini. Se mi avesse detto le stesse parole il ragazzo che mi piaceva, le ricorderei con un feeling diverso.

Forse è per questo che le prime manifestazioni di ingiustizia di genere della mia vita non le ho considerate tali. “Ma ti pare” mi dicevo, quando le mie idee venivano sminuite con una battuta, salvo diventare geniali se ripetute da un collega, tra l’altro senza troppe argomentazioni.

“Mi sarò espressa male io” pensavo. E avanti così. Ma questo era all’inizio. Ogni minimizzazione accompagnata da una pacca sulla spalla non sembrava ancora quello che era: un calcio in culo.

Nella vita privata, ma soprattutto in quella lavorativa, sono stata “tenuta in grande considerazione” dagli uomini. Finché l’avversario in campo non era un rappresentante del genere maschile. Allora, vinceva lui.

E non mi venite a dire “non ti sai vendere”. Perché ho visto maschi incapaci, inconcludenti, scansafatiche e molto più inesperti di me, sorpassarmi come se niente fosse. “Mi vendo” con il mio lavoro, con la passione che metto in quello che faccio, la grinta, il senso di responsabilità, la cultura, il rispetto. Non con uno speech suggerito da un corso di personal branding online, come vorrebbe farmi credere chi, ancora, dopo 20 anni di studio e sudore, mi tratta come una ragazzina alle prime armi.

La cosa che mi fa più rabbia è il maschilismo delle donne. Non sia mai che ci difendiamo tra di noi, è da sfigate. “Ma ti pare”.

Ci sono, ancora, nel 2019, quelle che si consolano guardando alle coppie potenti e dicono che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. Un bel vanto, ammirare donne che hanno asservito la loro intelligenza alla carriera del marito.

Anzi, no. La cosa che mi fa più rabbia è non riuscire a cambiare le cose, combattere senza sosta per la minima cazzata. La frustrazione, l’impotenza.

Vaffanculo.

Borscht

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Guten Appetit!

Avvicino il succo rosso alle labbra. Questa volta, il barman non ha esagerato con la vodka. Il mio Bloody Mary è equilibrato e gustoso, piccantino come piace a me.

Poso il bicchiere e alzo gli occhi. Sorrido.

Danke.

L’uomo che si è fermato davanti a me non si è spinto troppo vicino al tavolo. Questo mi dà tranquillità. Rispetta lo spazio, rispetta il tempo del cibo. Non vuole disturbare.

Desidera sapere quale piatto ho ordinato, perché sembra molto buono. Mentre chiede, indietreggia di un passo verso il tavolo dove i suoi amici si sono già seduti e lo osservano con i menu in mano.

Sono blini. A seguire arriva il borscht.

Mi chiede se sono russa. Gli chiedo se lui lo è. No, sono italiana. No, sono tedesco. E mi sorride, va da i suoi amici. Noto i suoi tatuaggi, il fisico magro e nervoso, lo sguardo gentile, ma stanco.

Sbircio il suo tavolo diverse volte, quando sento sollevare i bicchieri da shot e la voce dei commensali verso un tono da brindisi. Lo si capisce in qualunque lingua. E tra di loro parlano tedesco, inglese e russo. Ogni volta fa un brindisi silenzioso anche a me e ricambio.

Cambio drink, ho voglia di gin tonic. Guardo nervosa il telefono, aspetto un altro uomo, ma non lì. A cena sto da sola.

Non amo fare foto ai piatti, però amo raccontarli e scelgo già le parole per descriverli a chi vedrò dopo e che, a cena, non mi ci porterà mai.

Perché lavora di notte e ha un solo giorno libero, ma quel giorno è dei suoi amici. Perché ha un figlio di due anni con la sua ex e perché scappa da qualsiasi impegno, anche se vede solo me da sei mesi. E crederci o no, per me, non fa più la differenza.

Negli ultimi tempi, mi hanno spiegato che degli uomini ci si deve fidare. Mi hanno spiegato anche che per riuscire in qualcosa che non si riesce a fare, all’inizio si può anche fingere, per abituarsi piano piano all’idea.

La verità è che sono io quella che non si vuole impegnare. Ché la paura di farmi friggere di nuovo il cuore è troppo forte e non ho ancora recuperato il coraggio necessario.

L’amore resta ispirazione. Come una passeggiata di notte, come un brindisi silenzioso al ristorante russo. Come il racconto di una zuppa di barbabietole rosse e panna acida, dentro la luce di un’abat-jour.

Eco

Forse, stavolta, sono tornata davvero.

Un luogo virtuale è senza dubbio un luogo, in ogni caso. Lo si lascia, ci si torna. Se ne ha nostalgia.

Non riesco a guardare le immagini di Roma. Le foto dei miei contatti su Facebook, le serie tv e i film che sono girati lì. Mi manca da morire, ma non ci voglio tornare per un bel po’. Mi fa paura e mi rende triste. Come se ci fossimo abbandonate a vicenda, io solo col corpo, lei forse anche con lo spirito. Mi ha fatto male tornarci, lo scorso maggio, e non sentirmi più a casa tra i suoi vicoli, le sue mura, le sue braccia. Tra i miei amici.

Ecco, in questo luogo posso dirlo e posso scegliere il mio registro. Non devo accontentare un pubblico, anche se comunico con lui. Non dev’essere tutto, per forza, marketing o regalarsi a un giudizio spietato.

Posso anche solo scrivere di un’emozione triste, di come 15 anni di gioia e vita spericolata si siano trasformati in lacrime su una cartolina. E cercare l’eco delle mie parole.

I multipotenziali

Mi sono imbattuta poco tempo fa in uno TED Talk di Emilie Wapnick. Si tratta di un’artista e imprenditrice che si è inventata una carriera partendo dalla consapevolezza di essere una multipotenziale.

Emilie si rivolge a tutti coloro che non hanno un solo interesse, che si annoiano dopo un po’ che si sono dedicati a una cosa specifica e che si sentono in colpa per questo motivo. Perché non si sentono realmente specializzati in niente. Perché alla domanda “Che cosa vuoi fare da grande?” rispondono “Tutto”.

Durante la visione del video, mi veniva voglia di urlare: “Eccomi, Emilie!”. Eccomi. Non mi sono ancora rassegnata all’idea di fare solo una cosa nella mia vita e, anche per questo, cambio spesso. Sono una cameriera professionista, un’ex giornalista, una scrittrice inedita, una Customer Care Specialist, una blogger a tempo perso, una pittrice amatoriale (anche piuttosto scarsa), un’aspirante fotografa. Sto leggendo Delitto e Castigo, un manuale di criminologia e un saggio sui vini naturali, simultaneamente. Ah, sto studiando anche tedesco. E sono nevrotica. Strano, vero?

Spesso mi sono vergognata di non aver saputo scegliere o di non aver scelto bene. Tuttavia, scoprire che c’è tanta gente come me – più furba di me, per carità – mi fa sentire meno sbagliata. Ho sempre ammirato chi riesce a dedicarsi a una sola cosa e ad eccellere in essa per tutta la vita.

Ma ecco, ho appena scoperto che neanche il mio caos di interessi e progetti è malaccio :))

Vi lascio il video del Ted Talk originale di Emilie Wapnick e una traduzione in italiano.

Come Bridget Jones

Dall’ultima volta che ho scritto qui, è finita un’estate, è trascorso un autunno, iniziato un inverno e un anno nuovo. Soprattutto, ho compiuto 35 anni.

Come al solito, ho festeggiato a più non posso, annegando in alcol e risate i classici interrogativi da zitella, con un stipendio non milionario, troppi sogni da seguire e una vita sentimentale instabile.

Il primo tra i temuti interrogativi è stato: “Mi sono trasformata in Bridget Jones?”. No, anche perché lei è contesa da Colin Firth e Hugh Grant. Io, invece, ho il 25enne turco che si dice intrappolato in una storia decisa dai genitori, con una ragazza che non vuole perdere la verginità fino al matrimonio e che non sa che lui ci prova costantemente con me e chissà quante altre. La castità costa caro oggigiorno.

Ho anche il pompiere 42enne che si esprime per emoticon e il padre divorziato che cambia foto sui social ogni 20 secondi e ogni tanto non mi scrive perché ha un “nervo schiacciato”. Immagino che sia un nervo che blocca l’uso delle dita esclusivamente su What’s App, ma ti permette comunque di fare vagonate di selfie.

Bridget Jones aveva anche un bel lavoro. Io ne ho uno che mi fa vivere, in cui mi trattano molto bene e non mi fa guadagnare granché. Che mi ha fatto guardare da lontano il mio lavoro precedente, quello di cameriera, e me ne ha fatto distaccare per un po’. Mi sono rilassata molto in questo anno e mezzo lontana da tavoli e banconi. Tuttavia, udite udite, si è verificato quello che temevo: il mio lavoro mi manca. Mi mancano i clienti felici e non, educati e non. Mi mancano gli chef creativi e simpatici, ma anche creativi e isterici. Mi mancano i miei colleghi, con cui parlare di quel vino assaggiato, di quel piatto nuovo e, dopo il lavoro, in whisky veritas, di libri e attualità. Mi manca fare un lavoro che mi massacra e mi appassiona.

Mi manca la notte e i lampioni su cui sbattere in volo.

O forse, mi manca solo la bussola.

Ho 35 anni suonati e ballati con allegria e nei miei nuovi progetti ci sono tanti altri cambiamenti, più di quanti ne abbia fatti negli ultimi tempi. Un anno ancora a Berlino, a meno che la città non mi dia altri stimoli che non posso certamente prevedere, e poi chissà.

Davvero credevo di arrivare a questo momento della mia vita con qualcosa di “sistemato”? Come se non mi conoscessi!

Non credo di essere l’unica della mia generazione a dover affrontare il temuto bilancio con un enorme punto interrogativo a fare da fulcro. D’altronde, ci siamo trovati in mezzo a un mondo che cambiava, a una crisi che bloccava possibilità di carriera e possibilità di dedicarsi a una famiglia. Ognuno è sopravvissuto a modo suo. C’è chi ha vinto, c’è chi si sente un perdente, c’è chi continua a tentare. Io rientro nell’ultima categoria. E mi auguro che la creatività e le palle non mi abbandonino mai.

P.S. Magra consolazione: faccio yoga tutti i giorni e non sono a dieta come Bridget.

La testimone di nozze

Sono l’amica di sempre, quella di cui si raccontano ancora le follie del periodo universitario, ma anche quelle del periodo liceale e post-universitario. Sono la stagione senza fine di Sex & The City, quella che quando le altre si “accasano”, racconta ancora le avventure di una o qualche notte. Quella che dà il pepe alla telefonata, quella che si condivide con le altre amiche, anche quelle che non mi conoscono, perché c’è davvero tanto da parlare di me, ho sempre fatto di tutto per non avere una vita noiosa e ci riesco ancora, nel bene e nel male.

Sono stata la testimone di nozze di una delle mie migliori amiche. Ci conosciamo dal primo giorno di università, ormai 16 anni fa. Abbiamo vissuto insieme per 3 anni. E continuiamo, nonostante i chilometri di distanza, a raccontarci tutto senza filtri. Di materiale per un minuzioso e accattivante storytelling ce n’è parecchio. Il giorno del matrimonio, tutti i suoi amici sapevano tantissime cose di me e non facevano che dirmelo, non facevano che ripetere i racconti delle nostre follie, di cui, tuttavia, ero diventata l’unica protagonista. Mi sono sentita a disagio, tra il palcoscenico e la gogna. Sottoposta al giudizio di gente sconosciuta, che rideva alle mie battute e sotto sotto pensava che “non ho la testa a posto”.

Amo raccontare storie, amo anche quando a raccontarle sono persone a cui voglio bene e di cui mi fido, ma, ecco, quel giorno mi sembrava di essere sempre e solo la persona incosciente di qualche tempo prima, non la testimone di nozze che avrebbe dovuto sistemare il velo e stare vicina alla sposa. Per questo c’erano le altre, molto più brave di me.

Tra pochi giorni vado a trovare la mia amica e mi sento nervosa.

Per ricevere dagli altri la considerazione che voglio, dovrei prendermi un po’ più sul serio, forse. O un po’ meno. O provare con più forza a farla finita, con questa storia della considerazione.

 

Raccontami di te

“Parlo sempre io, raccontami qualcosa di te”.

“Ma che dici, se tutte le volte che ci vediamo ti attacco un pippone su qualsiasi tema tiriamo fuori”.

“Non dico di parlarmi di arte, di musica, di attualità. Dico di parlarmi di te. E’ successo qualcosa oggi, ad esempio? O nei giorni scorsi? Se vuoi dirmelo”.

“Niente di interessante, al massimo ti posso raccontare di questa persona che per me era importantissima e mi ha lasciata sola, in un momento in cui era l’unico che volevo vicino, l’unico che poteva difendermi” ho detto infine.

E gli ho raccontato di un amico che ho adorato, con il quale ho condiviso dei momenti indimenticabili, bellissimi. E dei momenti indimenticabili, bruttissimi, come la morte di un nostro amico. Ci siamo aggrappati l’uno all’altro, molto più di quanto avevamo fatto prima. Disperazione, senso di colpa, impotenza davanti all’irreversibile: ci siamo buttati tutto addosso e l’abbiamo curato come potevamo, ma superficialmente. Ci siamo spinti a vicenda verso la sopravvivenza, verso il ritorno alla normalità. Siamo diventati più che amici, per un periodo breve, che abbiamo imputato alla necessità di avere amore in un momento così complicato.

Gli ho raccontato di lui, che si è messo con una donna ed è sparito per un anno. E quando è tornato, mi ha chiesto di fare le 6 di mattina al pub insieme, come facevamo spesso prima. Ho detto di sì, mi mancava da morire. Il giorno dopo la sua ragazza è venuta a cercarmi al lavoro, dandomi della puttana. Mi ha minacciata, mi ha insultata per tutta Roma, insieme ad altra gente che reputavo mia amica. E lui non ha detto niente. Non ha fatto niente. E’ sparito di nuovo. Due anni di silenzio e di astio, questa volta.

Ho raccontato di lui a un mio collega, con cui si sta instaurando un bel rapporto di amicizia, dopo aver visto una bella mostra (“Roots and Wings”) in una galleria di Berlino.

Gli ho raccontato di lui, perché proprio quel giorno, dopo due anni, si è fatto rivedere. Instagram, di punto in bianco, mi ha detto che mi segue. Nessuna parola, solo la scelta di rispuntare dal nulla per farmi sapere che c’è e mi guarda.

“Hai visto? Meglio quando parlo d’arte”.

“Dovresti parlare un po’ più di te, invece”.

E boh. Non mi va di parlare di me, perché mi fa sentire a disagio.

E non mi va neanche di non sapere cosa fare se un giorno lui mi scriverà qualcosa.

Ma tanto si sa: a volte ritornano. Il problema è come.